Barbara Fragogna

Don’t Step On Your Inner Dwarf

A cura di Semaforo Brown e Alessio Moitre

Vernissage 27 maggio

Esposizione 28 maggio – 22 luglio 2017

 

“Qualsiasi insignificante dettaglio sostiene una tesi mal costruita.”

“Per dimostrare di essere seria, un’artista non può essere ironica.

 L’umorismo è un lusso da ostentare in menopausa.” -BF

Il Nano Interiore è l’essere oscuro e impertinente della mitologia posmica-crotica.

Il suo savoir-faire è inopportuno, la sua mimica è slemba, il suo istinto è infallibile.

Non è mai il caso di calpestarlo.

In filorosolia e in psicopomatica il concetto di Nano Interiore è spesso evocato per rappresentare il delirio di disperazione ossia la palpebra bassa del contorsionismo del Sé in chiave pessiottimistica con picchi ironici e tragici. Il Nano è lo sgorbio atavico dell’ideale, la maschera fiamminga (più Bosch che Van Der Weyden) della ragione, il grumo gutturale delle proprie motivazioni, il fondale scrostato della verità non propriamente detta, la lavatrice sbilanciata dell’ipocrisia, la sfrontata fanfara del patetico, l’inno squillante sempre troppo acuto del polemico. Nel lavoro di Barbara Fragogna tutto questo trova sfogo e compimento in un’apoteosi del Fallimento Lato, il tentennante tentativo volto alla risoluzione iperbarica del riconoscimento speculare di un ruolo sociale, una posizione morale, un senso materico, un piano prospettico dell’evoluzione dell’assurdo. Il suo lavoro è una battaglia campale nella quale i due eserciti in tenzone sono il Rifiuto e il Desiderio, forze opposte e complementari di un unicum homunculus, batterie di fanti senza cavallo e senza scarponi, sfaccettature senza rancio, ossature nervose/combattive/isteriche. Il fare-fare-fare della sua pratica artistica è voracità di “Senzavolto” Miyazakiano, è porporogia blu e verde, è corsa/rantolo/enfisema senza pausa.

Il Nano Interiore è viscera esposta (pittura, creta, linea), il colore irraggiungibile della bocca di Bacon, la mano sulla gola di Maria Callas, la biacca sul volto butterato di Elisabetta Prima, gli uccelli greci di Virginia Woolf, il lobo di Vincent, la danza convulsa e ridicola di Kate Bush, la bile schiumosa e hybris di Jean Clair, il genio di Bulgakov, la febbre di Silvia Plath, Flatlandia, Ghiaccio Nove e Raffaella Carrà se cantasse Shakira. I deliranti bollori dell’accanirsi contro lo pseudointellettuale, l’approssimazione saccente, il prìprì dei critichetti, l’allodolìo dei giornalisti fichetti, il qui-qui-quà dei post-host-concettuli, il wowy del glam, per parafrasare un costrutto personale e onesto, un fallimento vincente. Il Nano Interiore scalcia, sgorga, magma, rutta e non tiene archivi perché il dopodomani non esiste. Il Nano castra l’onnipotenza, ti riduce a tanto un quantum qualunque, ti ricorda che cammini rasoterra, che sei roccia e pianta e bestia e che è magnifico. Il Nano è il dio di polvere, ridimensiona lo spirito ad un fatto neuronale, ti mastica i polpastrelli mentre dormi e ti sveglia mentre credi di essere all’erta. Il Nano Interiore è individualista, concentra le sue mire perverse sul singolo, è convinto che ognuno debba essere sé e non smette mai, affermando se stesso, di confermare l’altro (o così crede di fare, a volte il Nano è naive).

Il Fallimento Lato è Repulisti di produzioni indesiderate, zavorre croniche che l’artista accumula compulsivamente, se li porta appresso in mille traslochi, da un paese all’altro, da una casa all’altra da uno studio all’altro. Il Repulisti è un’azione di violenza e distruzione autoinflitta, contro il mito della memoria che s’illude e si consola preventivamene nella gloria postuma, contro l’illusione della magnificenza dell’Ego. Col Repulisti l’opera storica (che non sarà mai storicizzata) si ricicla, muta “ridimensionandosi” occultando per sempre e irrimediabilmente il suo passato allo scopo di affermarne il presente, l’immediato, la vita. La trasformazione dell’opera è alchimia permalosa, è caparbietà di ricerca, è antipatico puntiglio, è inutile sforzo. Il Fallimento (Failure) dell’artista è la sua incapacità/inabilità di essere mainstream o, più basilarmente, di vivere del suo lavoro e, per estensione, di essere pubblicamente riconosciuto come lavoratore. L’artista per sua doverosa e onerosa natura osserva e critica il sistema sociale e politico in cui vive, il suo sguardo dovrebbe essere illuminante, il suo punto di vista unico e particolare quindi, paradossalmente, il suo fallimento è una redenzione, un successo. L’artista DEVE fallire per riuscire. Il fallimento è sublime. Il fallimento è l’opera effimera (creta non cotta), è il tempo impiegato per plasmarla e la pena nel distruggerla, le numerose ore nelle quali s’intesse un groviglio ossessivo di linee, di parole, di slogan e ammonimenti. Il fallimento è il nuovo ciclo di quadri che invecchieranno. Individualismo e inutilità e ha-ha-ha.

Nel tripudio gastrico dell’allestimento eterogeneo, nella schizofrenesia della composizione merzbaurocca, nella cacofonia dissonante del troppo poco minimal, bisogna trovare il bandolo, far fatica, subire l’aggressione e reagire restando o andandosene. L’installazione è un incubo bianco, un sogno caleidoscopico nel quale l’assurdo e il ridicolo sfilano in maschere di parvenza con il Nano a dirigerne la follia paprika. Barbara Fragogna se la racconta e se la ride ed è molto seria nel corcinfischiare tutto ciò.

Semaforo Brown, eteronimo di critico d’arte non accademico, personaggio totaleuropèo, omniologo rinascimentale che, marinando motti popolari Pirandelliani, a rigurgiti polemici Clairiani, a congetture impopolari, a momenti d’essere Woolfiani e a illuminazioni astrali, ci narra con vero acume e intelligenza la storia di un oggi assai glabro, un oggi adessoraneo, un oggi dal desiderio olografico da reincarnare.